Le sue origini democristiane e siciliane, la sua riservatezza negli anni e il suo understate nei primi atti da Presidente, la tragica morte del fratello e l’ombra della Mafia. Questi gli elementi ricorrenti nella descrizione del dodicesimo Presidente della Repubblica Italiana.
Meno citato il termine che politicamente può essere considerato il più associato al suo nome: mattarellum. Così Giovanni Sartori battezza le leggi di riforma elettorale in senso maggioritario che portano il nome di Sergio Mattarella, in vigore nelle elezioni del 1994, 1996 e 2001.
Sartori, nei suoi editoriali sul “Corriere della Sera” e su “Micromega”, poi raccolti nel pamphlet “Come sbagliare le riforme” (1995) profetizza che il passaggio al sistema uninominale a un turno avrebbe prodotto una forma di “ingovernabilità perfetta”, e che l’applicazione della legge che porta il nome di Mattarella si sarebbe risolta nella creazione di “ammucchiate scollate e pasticciate”. Stigmatizza come, nel corso dell’iter istituzionale, “il treno della riforma elettorale si incaglia in tutte le stazioni”: non solo i cittadini, di lì a poco chiamati ad esprimere la propria preferenza, non hanno un’idea chiara della differenza tra proporzionale e maggioritario, e delle possibili amalgame che un governante sapiente possa trarne, ma gli stessi leader di una Prima Repubblica in declino (con l’eccezione di Marco Pannella) dimostrano scarsa cognizione degli obiettivi politici che la riforma elettorale dovrebbe perseguire. Un Rasputin, stando a Sartori, si aggira nei corridoi di Piazza del Gesù, e spinge Martinazzoli a dibattersi tra una scelta – uninominale secca o a doppio turno – che rende ancor più complesso lo scenario referendario.
Questa incertezza si riverbera sui risultati della consultazione. Vince il Sì, ma quale? “Nell’essenziale l’indicazione referendaria sicura è che quattro italiani su cinque hanno ricusato il proporzionalismo e dichiarato di voler cambiare, e così di volere un sistema maggioritario e uninominale. Per contro, non è per nulla sicuro – e quindi materia di interpretazione – se trenta milioni di votanti capiscano la differenza tecnica (si badi, tecnica) tra uninominale a un turno e uninominale a due turni. Ci vuole un coraggio da leoni e una incompetenza (in materia di pubblica opinione) da dinosauri per rispondere: sì, è sicuro che tre milioni di persone hanno proprio voluto, con cognizione di causa, l’uninominale secco” (p. 37).
Ora, da Presidente e non da relatore della legge, Mattarella si troverà a porre la sua firma, tra le altre, su una legge elettorale che non ha neppure l’alibi dell’eccitazione referendaria, ma che può contare su due elementi ben più fragili: l’inadeguatezza ormai acclarata della legislazione vigente, e dunque la necessità e il rischio di un suo superamento purchessia, e gli equilibri interni ed esterni del Partito Democratico.
Il treno della riforma elettorale sta per riprendere il suo cammino, tra gli incagli del Nazareno e le varianti del Cangurone. Oltre l’eccitazione del nome condiviso, del Presidente eletto al quarto scrutinio, un giudice costituzionale (prima ancora che un democristiano, un siciliano, un uomo mite e riservato e il simbolo di una stagione oscura) al Quirinale è una scommessa al rialzo, forse l’inizio di un’autentica dialettica per non sbagliare le riforme.
di Christian Ruggiero