Matteo Renzi, la sostenibile(?) leggerezza dell’essere vincente

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Superati (e di molto) tutti i leader precedenti, il nuovo recordman della sinistra italiana si chiama Matteo Renzi. Il 40,8% raccolto dal suo Pd è un risultato storico, mai raggiunto prima – e nemmeno sfiorato – da alcun leader della gauche nostrana, che mette definitivamente la parola fine alle sterili polemiche sul traumatico cambio con Enrico Letta alla guida del Governo dopo la schiacciante vittoria – ma contro Cuperlo e Civati – alle “primarie” per la leadership democratica dell’8 dicembre 2013.

 

Forse Renzi non riuscirà a «cambiare verso» all’Europa, dato che nel nuovo Parlamento di Strasburgo saranno ancora una volta i popolari di Jean-Claude Juncker ad avere la maggioranza, ma almeno all’interno della sinistra continentale il suo ruolo è destinato ad aumentare notevolmente. Il suo 40% (e la soglia di sbarramento contro i piccoli partiti, cancellata invece in Germania dalla locale Corte Costituzionale) fa infatti del Pd il primo “affluente” dell’Alleanza dei Partiti socialisti e democratici europei – 31 seggi contro i 27 dei socialdemocratici tedeschi del candidato sconfitto Martin Schultz – e questo darà più forza a Renzi, sia come premier che come capo della sinistra riformista italiana, che potrebbe aspirare per qualcuno dei suoi alla presidenza dell’intero gruppo ed in prospettiva perfino a quella dell’Europarlamento, data la tradizionale “staffetta” con i popolari. Insieme a qualche riciclato di lusso, infatti, a Strasburgo Renzi può ora contare su un gran numero di fedelissimi, a cominciare dalla sua ex portavoce Simona Bonafè, la più votata in assoluto nell’Italia centrale.

 

In Italia la sua vittoria è addirittura schiacciante: il Pd ha preso più voti della somma del 2° e del 3° partito, rispettivamente il Movimento Cinque Stelle (21,5%) e Forza Italia (ferma ad un misero 16,8%). Persa l’occasione storica di essere determinante per un eventuale Governo ai tempi della “quasi vittoria” dell’ex segretario Pier Luigi Bersani, la creatura di Beppe Grillo sembra aver ormai innestato la retromarcia, avviandosi verso un prevedibilmente lungo ma inesorabile declino, come fu quello del Pci degli anni ’80: un’enorme cassaforte di voti conferiti con grande orgoglio dai propri sostenitori, ma non utilizzabili in alcun modo, almeno a livello nazionale. Alla luce del risultato elettorale risulta ora quasi profetica l’autoattribuzione – che a molti, ma non a chi scrive, era sembrata quasi “blasfema” – dell’«eredità morale» di Berlinguer, invocata da Grillo nei giorni scorsi a trent’anni dalla sua morte.

 

Nel campo moderato, ancora peggio è andata a Silvio Berlusconi: dopo vent’anni esatti trascorsi in politica, l’ex Cavaliere – tornato da poco al marchio “Forza Italia” – rischia infatti di “chiudere il cerchio” e di lasciare dopo di lui le stesse macerie che aveva trovato nel 1994, dopo che il ciclone giudiziario di Tangentopoli aveva spazzato via buona parte della classe dirigente del “pentapartito” (e anche qui le analogie non sono poche, dati i recenti “guai” di tutto il gruppo dirigente storico: lui stesso, Dell’Utri, Scajola e Verdini). Male anche gli ex frammenti del Pdl: il Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano, insieme ai popolari di varia origine, supera a stento la soglia di sbarramento (4,4%), mentre Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni rimane fuori (3,7%), nonostante l’aggiunta al proprio simbolo del brand “Alleanza Nazionale”. Semplicemente irrilevanti il cartello liberale Scelta Europea e quel poco che resta dell’Italia dei Valori, fermi entrambi allo 0,7%.

 

Oltre al “rottamatore di governo” Renzi, a festeggiare è soltanto chi cambia. Come minimo “nome e simbolo”: la Lista Tsipras (4,03%) va infatti molto meglio dei due precedenti “cartelli (elettorali) della sinistra” massimalista e supera per la prima volta il quorum dal 2006, nonostante la piccola concorrenza dei Verdi (0,9%). Ancora più convincente la nuova Lega di Matteo Salvini, unico altro segretario di partito ad essere stato eletto con le primarie – anche se in forma “chiusa”, cioè riservate ai soli iscritti alla Lega – con una percentuale ancora maggiore e con ventiquattro ore di vantaggio su Renzi. In pochi mesi l’”altro Matteo” ha saputo rinnovare completamente l’immagine del partito italiano di più antica formazione (1989). Spazzati via dalle “scope padane” di Maroni gli scandali del “Trota” Renzo Bossi e del “cerchio magico” che ruotava intorno all’anziano fondatore Umberto, oggi la Lega è un movimento di tipo nazionalista (anche se in salsa federalista-localista), che non parla più di secessione e utilizza come temi forti la lotta all’euro e all’immigrazione, specie se clandestina. Su questi temi Salvini ed i suoi sanno di poter raccogliere consensi su tutto il territorio nazionale, tanto da aver girato in camper molte piazze del profondo sud durante la campagna elettorale, mentre per le strade della ex «Roma ladrona» comparivano a sorpresa i manifesti elettorali del noto eurodeputato uscente Mario Borghezio, che proprio ai voti della Capitale deve ora la sua riconferma. Non è ancora noto se Salvini abbia vinto o no la sua piccola scommessa su Lamezia Terme – dove si aspettava almeno 500 voti – ma di sicuro ha vinto quella più importante: la Lega è oggi come auspicato il «quarto partito» italiano con il 6,15% dei voti, grazie anche all’1% raccolto al Sud e nelle Isole e addirittura al 2,1% nella “rossa” Italia centrale.

 

Analizzata la sconfitta dei suoi competitor, possiamo quindi affermare che Matteo Renzi si trova ora in una tipica situazione di “luna di miele”: non solo con i media, come hanno denunciato – non senza qualche ragione – i “grillini” nei giorni scorsi, ma anche con gli italiani, che – nonostante il calo dell’affluenza al 57% – gli hanno concesso una fiducia quasi senza precedenti nel nostro paese. Fiducia in fondo non dissimile – fatte ovviamente le debite proporzioni e al netto delle differenze storiche – da quella, aprioristica, che circondava nel 2009 il primo Barack Obama (a cui fu attribuito il premio Nobel per la pace a meno di un anno dall’insediamento). E proprio questo è ora il principale pericolo che ha di fronte a sé il giovane novello premier: quando le aspettative si fanno spropositate, il rischio di deludere i propri cittadini/elettori diventa ad un certo momento altissimo, come ben sa proprio il presidente americano, la cui ex popolarità planetaria è ormai da tempo rientrata entro i confini nazionali, dove pure è crollata ad un modesto 41%. Gli avversari di Renzi – in politica come nell’alta burocrazia ed in molti altri campi – conoscono bene questo meccanismo, e per questo si faranno ora più guardinghi, evitando qualsiasi scontro frontale, che li vedrebbe inevitabilmente soccombere. Cercheranno invece di logorarlo, in Parlamento e là dove gli sarà possibile, in lunghe scaramucce di posizione, sperando che prima o poi lui stesso conceda una pausa alla sua ben nota iperattività, oppure inciampi in qualche passo falso.

 

A differenza di altri tentativi precedenti, l’attuale premier sembra però dotato della competenza, della determinazione e della («non smentita») ambizione necessaria per prevenire tutto ciò, tanto che nella conferenza stampa di questa mattina ha lasciato chiaramente intendere che considera il suo lavoro di riformatore appena cominciato. Vedremo col tempo quali risultati concreti saprà produrre: se nei quattro anni che mancano alla fine della legislatura – senza dimenticare il “traguardo intermedio” delle elezioni regionali del 2015 – riuscirà a realizzare almeno gran parte delle riforme promesse, l’ex sindaco di Firenze avrà avuto ragione ancora una volta, e allora la sua ascesa diventerà davvero inarrestabile. Altrimenti vorrà dire che l’aria rarefatta che si respira ad alta quota avrà lasciato improvvisamente anche lui in debito d’ossigeno.

 

di Alessandro Testa