Decaduto. I media mainstream e social, le conversazioni da viaggio, da bar, da cena in famiglia ruotano, dalle 17.42 di ieri, 27 novembre 2013, di questa parola. Silvio Berlusconi è decaduto dalla carica di Senatore, come conseguenza della condanna definitiva per frode fiscale che ha aperto la stagione politica 2013-2014.
La notizia è ovviamente in apertura dei quotidiani di oggi, e proprio dalle lettura dei due editoriali “di punta”, quello de “la Repubblica” e quello del “Corriere della Sera”, viene al pettine un nodo politico e mediale che è la chiave di lettura di ciò che è stato e che sarà, del Cavaliere, della politica italiana, delle sue istituzioni.
Ezio Mauro titola enfaticamente “L’eccezione è finita”. Non si tratta, però, di una facile profezia di fine del “ventennio berlusconiano”, ma di un rallegramento d’altro genere: L’eccezione è quella che Berlusconi avrebbe voluto ancora una volta per sé, dopo le leggi ad personam e gli escamotage giuridici e soprattutto mediatici per tirare per le lunghe i suoi processi e le relative conseguenze, per delegittimare i suoi accusatori e rivendicare una “eccezionalità”, appunto, del personaggio e della situazione, tale da porre il Cav., di fatto, al di sopra della legge. Ma l’eccezione è, soprattutto, la circostanza per cui le istituzioni hanno, forse per la prima volta, tenuto la schiena dritta, seguito “una legge che le Camere hanno approvato un anno fa a tutela della loro onorabilità istituzionale”. L’eccezione sta nel fatto che “il sistema non si è lasciato deformare, ha resistito, la politica ha ritrovato la sua autonomia, le istituzioni hanno retto”.
È questa la posta in gioco. Dieci anni fa, Paolo Mancini usava questa formula per riassumere la “campagna drammatizzata” del 2001, tutta giocata sulla “fitness to rule” del Cavaliere, dopo le rivelazioni del libro di Marco Travaglio ed Elio Veltri presentato da Luttazzi, dopo le dichiarazioni di Indro Montanelli su Berlusconi come “virus” dell’Italia democratica, dopo le prese di posizione della stampa internazionale, su tutti l’“Economist” (Mancini, 2003). Ieri, alle 17.42, è stata sancita la “unfitness to stay in Parliament” del leader del centrodestra. Ed è iniziata la fase più virulenta della lotta alle istituzioni.
Ancora Mauro stigmatizza la scelta del Cavaliere di uscire “dall’abito dell’uomo di Stato per indossare il maglione da combattimento, la sua personale mimetica di predellino populista”. Gli fa eco Antonio Polito, che sul “Corriere” evidenzia la responsabilità di Berlusconi nella gestione di quella che è diventata una vera e propria crisi politica: “La sua lunga militanza nelle istituzioni gli avrebbe dovuto suggerire comportamenti diversi […] Invece, Berlusconi ha scelto un’altra strada, per la felicità dei falchi di qua e di là”.
Queste affermazioni, condivisibili e necessarie sul piano formale, dimenticano un elemento fondamentale della retorica berlusconiana: l’essere da sempre stato l’uomo fuori delle istituzioni, che proprio in virtù di questo aveva il potere di piegarle alla volontà popolare incarnata nella sua stessa figura. Come tutti i topòi in grado di appassionare il pubblico, l’antipolitica e l’antiistituzionalità di Berlusconi si è declinata negli anni in format e copioni diversi, dal fare il gesto delle corna dietro la nuca del ministro degli Esteri spagnolo Josep Piqué al vertice dei ministri degli Esteri europei di Caceres, nel 2002, fino a definire implicitamente “coglioni” gli elettori di centrosinistra nel corso della campagna elettorale per le elezioni politiche del 2006 (Ruggiero 2013) e a partecipare tutt’altro che non visto alla festa di compleanno di una giovane casertana così affettuosa nei suoi riguardi da chiamarlo “papi”.
La fenomenologia di Silvio Berlusconi è leggibile anche solo nei titoli dei volumi a lui dedicati: citiamo, non solo per prossimità accademica e personale, Lo Stato in appalto. Berlusconi e la privatizzazione del politico (Prospero 2003) e Il comico della politica. Nichilismo e aziendalismo nella comunicazione di Silvio Berlusconi (Prospero 2010). Il Cav. ha inculcato nella politica italiana, come il virus di montanelliana memoria, una sfiducia nelle istituzioni che parte da due elementi, la contrapposizione tra pubblico e privato e la deliberata rottura delle regole formali, che erano già presenti nell’immaginario non solo politico italiano, e che il berlusconismo culturale (Morcellini 2010, Valentini 2009) ha rafforzato e sdoganato. Ora, se è vero che le istituzioni hanno tenuto il punto, resta da dimostrare la loro capacità di tenuta nel medio-lungo termine. A maggior ragione alla luce della dichiarazione “a caldo” di Berlusconi, che si paragona ad altri leader fuori dal Parlamento come Grillo e Renzi. Se il paragone è fuori luogo per il Sindaco di Firenze, che pur nella sua veste di “rottamatore” sta seguendo un iter tutto politico di scalata alla leadership (incarichi locali di progressiva importanza, ribalta nazionale, sfida alla classe dirigente del partito prima con le Primarie e poi con il Congresso), è invece di drammatica attualità nei confronti di Grillo. Il leader del MoVimento 5 Stelle ha saputo mettere in secondo piano la sua impossibilità di accedere alle cariche parlamentari, non ha neppure insistito sulla coerenza della sua scelta, ma ha imposto con successo quella retorica dell’“aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno” che non solo è simile nei toni a quella berlusconiana (Ruggiero 2012), ma certamente rinnova e rafforza il legame debole degli italiani con le istituzioni.
È alla luce di tutto questo che la capacità delle istituzioni, e del Parlamento in primis, di tenere botta a fronte delle accuse di killeraggio politico non appare come un dato acquisito. Ma come la posta in gioco della politics italiana del 2013.
di Christian Ruggiero