C’è molta sorpresa, all’indomani dell’elezione dei Presidenti di Camera e Senato, per l’eventualità che i voti che hanno portato Laura Boldrini e Pietro Grasso alla guida dei due rami del Parlamento provengano, anche in parte, dagli eletti del MoVimento 5 Stelle.
La polemica è, secondo un plot narrativo ormai consolidato, rinfocolata da un post di Beppe Grillo, che recita: “Nella votazione di oggi per la presidenza del Senato è mancata la trasparenza. Il voto segreto non ha senso, l'eletto deve rispondere delle sue azioni ai cittadini con un voto palese. Se questo è vero in generale, per il MoVimento 5 Stelle, che fa della trasparenza uno dei suoi punti cardinali, vale ancora di più. Per questo vorrei che i senatori del M5S dichiarino il loro voto. Nel ‘Codice di comportamento eletti MoVimento 5 Stelle in Parlamento’ sottoscritto liberamente da tutti i candidati, al punto Trasparenza è citato: - Votazioni in aula decise a maggioranza dei parlamentari del M5S. Se qualcuno si fosse sottratto a questo obbligo ha mentito agli elettori, spero ne tragga le dovute conseguenze”[1].
La questione non è di poco conto, ma la parola chiave non è trasparenza. È istituzionalizzazione. Al di là della discussione, incentrata sul “controllo” che la leadership bicefala del MoVimento imporrebbe ai suoi eletti, l’entrata dei parlamentari a 5 Stelle nel gioco delle votazioni delle due Camere, che rappresenta, in senso costruttivo e deteriore, la dialettica insita nelle istituzioni democratiche, rimanda ad alcune letture classiche.
Prendiamo in mano un Manuale ormai un po’ impolverato – più a causa dell’incuria dell’ex studente che dei suoi contenuti: “Per tradizione, gli studiosi di scienze sociali hanno supposto che tutti i movimenti passino attraverso alcune fasi distinte, dando per scontato che un movimento cominci con un momento di fermento sociale, continui con una fase di eccitazione popolare, per passare successivamente ad un periodo di organizzazione formale e finire in un processo di istituzionalizzazione. Già Max Weber aveva ricordato che un movimento, una volta affermato, perde la passione e la carica di contrapposizione primitiva; la forza d’impatto si attenua e i problemi di normale amministrazione diventano predominanti” (Smelser, 1984, p. 603).
Procediamo con un volume che va più nello specifico: “I movimenti sono espressione di uno scopo comune che si realizza mediante un’azione collettiva che opera al di fuori delle istituzioni esistenti ed è portata avanti con modalità spesso non convenzionali” (Cesareo, 1998, p. 113). E ancora: “Il movimento collettivo è, quindi, un’entità dinamica che spesso, nel corso della sua esistenza, passa attraverso le seguenti fasi: quella che si potrebbe definire di rottura nei confronti dell’assetto istituzionale, quella dello scontro vero e proprio e, infine, quella dell’influenza istituzionale. La distinzione tra le diverse fasi può essere espressa in forma ancora più articolata e, in proposito, vi è chi ha distinto quattro stadi di sviluppo (Blumer, 1951): 1) lo stadio del ‘fermento sociale’ (caratterizzato dall’assenza di organizzazione); 2) quello della ‘eccitazione popolare’ (in cui si cominciano a precisare gli obiettivi dell’azione); 3) quello della ‘formalizzazione’ (fase organizzativa); 4) infine, lo stadio della ‘istituzionalizzazione’” (Ivi, p. 115).
Concludiamo con uno sguardo che rende merito alle connessioni tra il pensiero dei classici e gli studi nostrani: Gattamorta (2008, p. 62), ci ricorda “la concezione espressa da Alberoni (1968; 1981), per il quale le istituzioni rappresentano il, volto freddo e stabilizzato che corrisponde al raffreddamento delle correnti calde e sotterranee (teorizzate da Durkheim), ovvero dei movimenti statu nascenti (teorizzati da Weber), della società”.
Perché offrire una sorta di reader del concetto di movimento in Sociologia, con riferimenti che, quando va bene, arrivano agli anni Ottanta del Novecento? Perché il dibattito pubblico si concentra inevitabilmente sul frame ormai consolidato della politica come lotta intestina, che trova nuova forza nel momento in cui un soggetto radicalmente esterno, ostile ed avversario nei confronti della politica entra con forza inaspettata nel Palazzo pasolinano. Ma come studiosi siamo chiamati a ricordare che i movimenti non sono una prerogativa della società delle reti, e che non è affatto detto che le categorie interpretative del Novecento debbano arrendersi di fronte alla novità del Movimento personale in Rete di Grillo.
Se il fermento e l’eccitazione popolare si sono cristallizzati nei due Vaffa-Days, ora per il MoVimento di Beppe Grillo è il momento di fronteggiare la fase più delicata, quella dell’organizzazione. È ancora Smelser a venirci in aiuto: “non tutti i movimenti sociali finiscono per istituzionalizzarsi: ciò è molto legato al modo in cui i membri vivono il movimento; queste loro sensazioni sono influenzate a loro volta dal grado in cui gli obiettivi del movimento rispecchiano i loro valori dalla misura in cui il movimento è accettato o rifiutato dalla società nel suo complesso” (1984, p. 603).
La dinamica di accettazione-rifiuto del MoVimento ha risentito, forse come mai in altre epoche, della cattiva reputazione della politica contro cui il suo leader si scagliava e si scaglia tuttora. Ciò non significa che la delicatissima fase di organizzazione del movimento non possa seguire patterns più che consolidati. Un memento per chi gioca con la metafora dell’apriscatole, ma forse sottovaluta i movimenti interni che caratterizzano la scatola di tonno democratica. Soprattutto all’indomani di due elezioni che in qualche misura riflettono proprio obiettivi e valori del MoVimento.
di Christian Ruggiero