La campagna elettorale appena conclusa è stata decisamente anomala, tanto che qualche analista non ha esitato a definirla “la più brutta di sempre”.
Prima anomalia: il contesto politico. Tredici mesi di governo tecnico retto da una “strana maggioranza” composta da Pdl, Pd e Udc, a cui viene a mancare il sostegno del partito di Silvio Berlusconi. Si vota con un paio di mesi di anticipo rispetto alla naturale scadenza della legislatura, per la prima volta in pieno inverno.
Seconda anomalia: la legge elettorale. A camere sciolte il porcellum non è stato modificato: si torna alle urne con le liste bloccate, e con un sistema di voto che prevede un premio di maggioranza alla Camera assegnato su base nazionale, mentre al Senato i seggi vengono distribuiti su base regionale, cosa che rende due sole regioni come la Lombardia e la Sicilia assolutamente determinanti.
Terza anomalia: i “candidati”. O meglio leader della coalizione. Pierluigi Bersani si presenta come candidato della coalizione di centro sinistra, forte di un’investitura ricevuta da oltre tre milioni di persone che si sono recati a votare alle primarie, e che hanno scelto lui e non Matteo Renzi o Nichi Vendola (senza dimenticare gli altri due sfidanti, Laura Puppato e Bruno Tabacci). Sull’onda delle primarie del centro sinistra, e orfano del padre fondatore, anche il Pdl opta per le primarie, salvo poi annullarle dopo il prepotente ritorno in campo di Silvio Berlusconi. Ma il Cavaliere non piace alla Lega, e il prezzo dell’alleanza tra Pdl e Carroccio è che il Cavaliere non sia candidato premier. Avanzano Alfano e Tremonti, ma alla fine si opta per definire il Presidente del Consiglio solo in un secondo momento. Ma è Berlusconi a metterci la faccia e ad apparire su tutti i media per illustrare le proposte del Pdl; del resto sul simbolo del partito compare ancora una volta la dicitura “Berlusconi presidente”. Il premier uscente, Mario Monti, che nella conferenza stampa di fine anno aveva annunciato di non avere intenzione di schierarsi con nessuno, diviene candidato premier previa accordo Udc e Fli, e assume perfino lo spin doctor di Barack Obama. Antonio Ingroia lascia (momentamente) gli incarichi in Magistratura per trasformare il Movimento Arancione dei sindaci ex Idv De Magistris e Orlando in Rivoluzione Civile. Ottiene l’appoggio di Antonio Di Pietro e il sostegno della sinistra extraparlamentare, come i comunisti di Ferrero e Diliberto, ma anche i Verdi di Bonelli. Arruola giornalisti del calibro di Sandro Ruotolo, volti noti della cronaca come Ilaria Cucchi. Oscar Giannino, il dandy della politica, noto giornalista economico, dalle giacche sgargianti, lancia “Fare per fermare il declino”, può sottrarre voti al Pdl, anche se i sondaggi lo danno all’1%. Ma a pochi giorni dal voto è costretto dal cofondatore del Movimento, Luigi Zingales, ad ammettere di aver raccontato “balle” sui titoli di studio posseduti e a dimettersi dalla presidenza del Movimento. Il caso di Beppe Grillo meriterebbe un capitolo a parte. Il leader e fondatore del Movimento 5 Stelle intercetta il voto di protesta, di chi vuole mandare a casa la vecchia politica che ha portato il paese sull’orlo del baratro, di chi vuole un Parlamento pulito, libero dai condannati o dagli indagati, e dove gli eletti siano disposti a rinunciare ai privilegi della casta. Ma Grillo non figura nella lista dei candidati. Su di lui pende una condanna definitiva per omicidio colposo (fu protagonista di un incidente stradale in cui morirono tre persone, nel 1981). La sua campagna elettorale esclude le televisioni alle quali non concede neanche un’intervista, ma sfrutta il web e riempie le piazze.
Anche il percorso mediatico che porta i candidati ad approcciarsi al voto vede toccare temi insoliti: irrompe in piena campagna elettorale lo scandalo MPS che va a sostituirsi al caso Cosentino e alla diatriba delle liste pulite. Oltre alle continue discussioni sull’eccessiva pressione fiscale al termine del gennaio e a poco meno di un mese dal voto la discussione politica riguarda le polemiche seguite alle dichiarazioni di Berlusconi che riabilita la figura di Mussolini nel Giorno della Memoria. E allora per riabilitare la propria immagine il Cavaliere tira fuori dal cilindro la “proposta shock”, restituire l’IMU per il 2012. A meno di 10 giorni dal voto il vero shock arriva dalla Città del Vaticano: Benedetto XVI annuncia le dimissioni l’11 febbraio, diventeranno effettive solo il 28, ma la politica non riesce a rimanere indifferente ad un gesto di portata storica. Passata l’ondata emotiva del “gran rifiuto”, tornano ad occupare la scena gli scandali: se il caso MPS ha visto coinvolto il Pd, il caso Finmeccanica e l’arresto del suo presidente Orsi tirano in ballo la Lega.
Una campagna elettorale anomala non poteva che produrre un risultato ancora più caotico. A urne chiuse e spoglio ultimato manca il vincitore, perché manca la maggioranza al Senato. Il Pd vince per un pugno di voti alla Camera; Silvio Berlusconi a suon di grandi promesse fallisce di poco il sorpasso; i consensi ottenuti da Mario Monti si fermano al 10%, il premier uscente paga la linea del rigore e dell’europeismo costata forse troppo agli italiani. Rimangono fuori dal Parlamento Ingroia e Giannino i cui partiti non arrivano al quorum. La vera sorpresa è il MoVimento 5 Stelle, che erode consensi a destra e a sinistra e si consacra come partito più votato alla Camera, il secondo a Palazzo Madama. Un successo che forse non poteva prevedere neanche Beppe Grillo.
L’Italia si ritrova ora senza un premier, e senza una maggioranza in Parlamento, e a breve anche senza Capo dello Stato. Già perché chi per diritto di Costituzione può dipanare questa matassa è Giorgio Napolitano, il cui settennato scadrà a maggio, altra e ultima anomalia di questo insolito 2013.
di Eleonora Spagnolo
Gruppo di ricerca
“Politiche 2013”