Il “mediagate” ferragostano lanciato da la Repubblica, la notizia che i consiglieri regionali del MoVimento 5 Stelle, e in particolare l’eletto in Emilia-Romagna Giovanni Favia, hanno utilizzato fondi pubblici per acquistare ospitate radiofoniche e televisive, rappresenta un’ottima variante di una tendenza ormai consolidata nella politica e nel giornalismo italiano: quella a spostare il fuoco da una questione di policy a una presa di posizione decisamente political.
Scorrendo le pagine che il quotidiano romano dedica alla questione tra il 14 e il 17 agosto, i termini della questione appaiono inizialmente chiarissimi: diversi eletti del MoVimento, Favia in testa, in spregio alla loro dichiarata politica di non utilizzo dei fondi pubblici destinati alla loro lista come forma di protesta contro il finanziamento ai partiti e la derivante ed endemica corruzione, hanno imputato proprio sui fondi regionali di loro spettanza il costo di alcune ospitate in programmi radiofonici e televisivi locali.
Sin qui, due questioni. L’evidente contraddizione tra gli intenti manifesti e le pratiche di comunicazione di un “grillino” eletto “sull’onda della protesta contro la Casta”[1], e l’eccentricità della notizia: usualmente, ingenti somme sono spese in manifesti o forme di comunicazione autogestita – non a caso al termine degli anni Novanta al centro della polemica erano gli spot televisivi – non le ospitate, notoriamente gratuite (Vespa docet). Sul primo nodo, Favia risponde muovendosi con una certa difficoltà proprio sul terreno delle forme di comunicazione istituzionale che legittimamente il suo MoVimento ha diritto di mettere in campo – “Nessuna rivelazione, tutto è pubblico sul nostro sito, siamo gli unici. I media omettono molte delle nostre denunce e visto che è previsto l'acquisto di spazi per la comunicazione istituzionale, abbiamo deciso di fare noi: un'ora al mese di informazione senza censura”[2], “c’erano criticità che non mi convincevano [tra cui] il fatto che non fosse chiara la committenza pubblica degli spazi, che compete all’editore”[3].
Ma la seconda questione è più interessante, anche perché è quella che vede la discesa in campo del leader nazionale del MoVimento. “Pagare per andare in televisione per il MoVimento 5 Stelle è come pagare per andare al proprio funerale, anche se è certamente lecito”: è questo il grido di guerra che Grillo lancia dal suo blog, una conferma del principio antitelevisivo che stride con i distinguo di Favia – il problema sono i talk show nazionali, dove non riesci ad esprimere un concetto, condotti ad arte per disinformare. Lui [Beppe] ci ha sempre consigliato di non andare nelle reti nazionali ma in quelle locali sì, per informare i cittadini su questioni concrete”[4].
Ciò che è più interessante, però, è che, chiusa con il “mea culpa” di Favia la questione di policy, resta aperto il nodo political. Soprattutto perché, nonostante la contrapposizione teoricamente valida Tv locale (buona) – Tv nazionale (cattiva), Favia non è assolutamente un neofita del panorama generalista nazionale. Per averne conferma, è sufficiente scorrere i video caricati sul canale YouTube che porta il suo nome: sarà possibile, tra le altre, osservare i suoi interventi ad “Agorà” (“Politica: il grande freddo”, 01/02/2012) e a “Piazza Pulita” (“Quanto costano i parlamentari”, 16/12/2011), e la sua apparizione a “Servizio Pubblico” (“Spazzare via tutti”, 19/04/2012). Segmenti che, lungi dall’essere caricati in funzione unicamente autocelebrativa, servono al consigliere regionale per duri e precisi attacchi a un contesto che dimostra di conoscere per esperienza diretta. Ad esempio, piccoli, interessanti esperimenti di autoanalisi della propria performance sono alternati a giudizi impietosi sulla piazza elettronica de La7: “Quasi due ore di disagio, con l'impressione di trovarsi in un pollaio più che in uno studio Tv a La7. L'educazione non paga in termini di tempo a disposizione, comunque sono riuscito a parlare qualche minuto. Il tema del vitalizio e degli stipendi d'oro dei politici era già stato affrontato prima che io parlassi, ormai questi temi sono diventati di dominio pubblico e quindi ho deciso di dedicare il mio intervento al costo dei partiti, vere e proprie "macchine da soldi". Ho dovuto parlare a macchinetta proprio per evitare che qualcuno mi togliesse la parola....”[5].
Al di là delle piccole contraddizioni del consigliere Favia, la questione rimane sul tavolo, soprattutto per un soggetto politico proiettato verso la scena delle elezioni nazionali. L’intransigenza esibita da Grillo è certamente un elemento di aggregazione del consenso contro una politica e un giornalismo sempre più autoreferenziali, e una comunicazione televisiva sempre più opacizzata dal conflitto o dal collateralismo tra gli attori che dovrebbero invece volgere lo sguardo verso il mitico “pubblico a casa”. D’altronde, gli attacchi ai media fonte di disinformazione sono certamente più convincenti se accompagnati da “prove raccolte sul campo”, e perché no da performance spettacolari volte a scardinare il sistema (si pensi ai Radicali Pannella e Bonino imbavagliati alla “Tribuna del Referendum” del 1978). Riuscirà il MoVimento a trovare, se non un equilibrio virtuoso, una via per battere entrambe le strade dell’antipolitica antitelevisiva?
[1] http://bologna.repubblica.it/cronaca/2012/08/14/news/consiglieri_intervistati_in_tv_a_pagamento_anche_i_5_stelle_usano_cos_i_soldi_pubblici-40916805/
[2] http://bologna.repubblica.it/cronaca/2012/08/14/news/favia_s_compriamo_spazi_in_tv_per_non_essere_censurati-40916807/[3] http://bologna.repubblica.it/cronaca/2012/08/17/news/favia_mea_culpa_su_facebook-41103631/
[4] http://bologna.repubblica.it/cronaca/2012/08/14/news/favia_s_compriamo_spazi_in_tv_per_non_essere_censurati-40916807/
[5] http://youtu.be/U_InXnSm-2c