Una lettura diacronica del caso “Pussy Riot” rivela un aspetto interessante dell’applicazione delle teorie della narrazione all’agire politico.
Il culmine delle proteste si raggiunge a cavallo di Ferragosto 2012, con l’avvicinarsi della data della sentenza e poi con la condanna a due anni alle tre “cattive ragazze” russe, in regime di detenzione preventiva da oltre cinque mesi. Artisti, intellettuali, capi di Stato e di governo, autorità religiose e morali, cittadini comuni si mobilitano in ogni parte del globo contro la minaccia e poi la concretizzazione di una condanna che giudicano ingiusta. Oggetto dell’ondata di biasimo collettiva è Vladimir Putin, già Primo Ministro, ora Presidente, nell’immaginario mediale e non solo Zar di Russia.
È Putin l’oggetto della performance delle Pussy Riot sul sagrato della Chiesa del Santissimo Salvatore, è per liberare la Russia da Putin che le ragazze hanno intonato la loro irriverente preghiera alla Madonna. Ma, almeno ufficialmente, non è su iniziativa di Putin che è avvenuto il loro arresto. È per le pressioni del Patriarca di Mosca Kirill I che vengono incarcerate, e l’accusa è quella di teppismo e vilipendio dei luoghi sacri.
La questione, infatti, non manca di essere rubricata come segno dell’arrendevolezza del governo russo nei confronti dei desiderata della Chiesa ortodossa. Ma non è il volto del Patriarca a comparire pesantemente truccato nell’ennesima immagine di contestazione virale. Il Re crudele che ha fatto rinchiudere le fanciulle nella Torre non è la stessa persona che ha rotto l’equilibrio iniziale della storia – che peraltro un certo equilibrio l’aveva anche fuor di metafora: non era la prima volta che le ragazze incappucciate intonavano i propri brani in setting ad alta visibilità istituzionale, e il mausoleo di Lenin può essere considerato anch’esso un luogo “sacro”.
In questo complesso intreccio di poteri, tra politica e religione, l’antagonista in senso proppiano è senza dubbio Vladimir Putin. La motivazione della condanna alle Pussy Riot, teppismo e incitamento all’odio religioso, e le dichiarazioni del giudice che l’ha emessa, rievocano l’ombra del Patriarca. E una delle ragazze, con notevole lucidità, dichiara: “Non sospettavamo neanche che le autorità sarebbero state così stupide da perseguire delle femministe punk anti-Putin, dandoci legittimità nello spazio sociale”[1]; imbarcarsi in un processo altamente mediatizzato, contro delle giovani assurte a simbolo della contestazione principalmente perché imprigionate dal Potere, i cui passamontagna dai colori sgargianti costituiscono peraltro un perfetto simbolo per la messa in scena di iniziative di protesta e solidarietà in tutto il mondo, non sembra una mossa degna dell’intelligenza politica dello “Zar”.
Il gioco di sponda, inizialmente più evidente, tra i rappresentanti del potere temporale e spirituale nella Russia del 2012 è difficilmente interpretabile. Ma nella vulgata dei media e non solo, il ruolo del villain è assegnato da tempo, e allontana egregiamente la domanda: cui prodest?
[1] http://www.repubblica.it/esteri/2012/08/17/news/pussy_riot_o_ggi_il_verdetto_proteste_in_tutta_europa-41073569/?rss