Lo sguardo di chi scrive era stato attratto dai cartelloni pubblicitari di Videocracy, il docu-film di Erik Gandini, ma difficilmente quello stimolo da solo lo avrebbe portato in sala nel giorno della sua uscita. Quel che ha inserito la pellicola nell’agenda politica di fine estate 2009 è stata la polemica innescata dal rifiuto della Rai di trasmetterne i due trailer. Perché le immagini di donne scollacciate del primo avrebbero richiamato le problematiche legate alle attitudini morali del Premier, e le scritte su fondo nero che riportavano statistiche sulla libertà di informazione o sulle pari opportunità in Italia, alternate a una passeggiata di Silvio Berlusconi tra due ali di folla nel secondo, avrebbero siglato una definitiva dichiarazione di guerra nei confronti del Presidente del Consiglio.
In realtà, il film sembra più che altro essere una narrazione coerente del mondo dello spettacolo televisivo e della sua coltivazione della società italiana, in cui la figura di Berlusconi compare per incisi. Trent’anni fa un quiz show con telefonate da casa trasmesso da una Tv locale, in cui per ogni risposta corretta una “casalinga” col volto coperto da una maschera procedeva in uno spogliarello amatoriale, provoca le rimostranze delle mogli di operai che passano la serata davanti allo schermo e il giorno dopo sono stanchi per il lavoro. È l’inizio di una rivoluzione culturale che passa d’improvviso al colore, con una carrellata di immagini di repertorio da Colpo grosso, Drive In, fino a Striscia la Notizia e al Grande Fratello. E il Presidente della Tv che ha mandato in onda queste trasmissioni è oggi il Presidente del Paese. Stacco. Nel giardino di una villetta del bresciano Ricky Canevali si allena in tenuta da karateka, sotto lo sguardo tra il fiero e il divertito della madre. Il giovane operaio è il simbolo di chi è cresciuto nel Paese della Tv e quindi lo può capire, un “wannabe” con un progetto ben definito per arrivare “dieci gradini sopra tutti gli altri”, cioè in televisione: creare su di sé un personaggio a metà tra Jean-Claude Van Damme e Ricky Martin, che sappia cantare ed esibirsi con le arti marziali. La società dello spettacolo dà un’opportunità a tutti, anche se “tutti” sono in prevalenza ragazze, Veline e Letterine che coi loro stacchetti possono alzare lo share dei programmi. E tra le immagini dei provini di Veline compare ancora una volta un inciso, un’immagine di Mara Carfagna: il Presidente ha scelto una donna di spettacolo per il Ministero delle Pari Opportunità. Il meccanismo del film è questo: l’alfa e l’omega della pellicola è in fondo Ricky, che sogna dal di fuori un mondo che antieroi come Lele Mora e Fabrizio Corona raccontano dall’interno. Il resto è un gioco di rimandi: Lele Mora rende famoso chiunque perché è amico del Presidente, come ricorda la voce off, o perché riesce a intuire le doti delle sue creature e a valorizzarle, come dichiara lui stesso? C’è un legame tra la stima che porta verso Berlusconi e il fatto che il suo telefonino squilli al ritmo di Faccetta nera? La voglia di divertire e divertirsi che sta alla base del successo del Cavaliere come personaggio ha scatenato forze oscure al di fuori degli studi televisivi, “creato” Fabrizio Corona? Il “comandante dei paparazzi” ha grande stima di Berlusconi, e le immagini che lo ritraggono sdraiato sul letto a contare mazzette di soldi, o mentre urla a una folla in acclamazione che l’unico vantaggio della politica è l’immunità parlamentare, si intrecciano a quelle del Presidente del Consiglio che ricorda come nessuno abbia realizzato imprese ambiziose quanto le sue, all’ennesimo inciso sul Lodo Alfano. Fare delle cose che non vanno pur di ottenere un risultato, in termini di soldi e visibilità: è questa la parola chiave, un’idea che d’altronde è nel sottotitolo del film: “basta apparire” in quella scatola magica che è la Tv per entrare nelle case degli italiani e diventare popolare. Alla fine anche Ricky sembra avere la sua piccola vittoria, mentre osserva compiaciuto la sua esibizione a X-Factor. Videocracy è lo stato dell’arte della società dello spettacolo nel 2009, è la storia di Ricky ed è un ritratto inedito e profondo di Lele Mora e di Fabrizio Corona, è un film sulla Big Brother Generation che intreccia questa storia con un filo di diverso colore, ma che si lega alla trama principale così bene da confondersi in essa: i riferimenti al Presidente della Tv e dell’Italia. Ma non è una ricostruzione dei legami tra la Tv commerciale, i mutamenti della società italiana degli ultimi trent’anni e il percorso politico del Cavaliere, come Il venditore di Giuseppe Fiori o il più recente La sindrome di Arcore di Giovanni Valentini. È piuttosto il racconto delle conseguenze di questa sindrome, la creazione di un Olimpo dei famosi in cui il biancovestito Lele Mora è Bacco o Giove, Corona è Mercurio o Plutone. Non è un documentario sul cortocircuito mediatico e politico italiano costruito sulle testimonianze di Travaglio, Colombo, Ginsborg e de Zulueta come Citizen Berlusconi, né un attacco diretto alla “censura di Stato” come Viva Zapatero. È piuttosto una constatazione che il successo di Berlusconi sta anche nel saper essere un avventuriero, una puttana, un assassino (Abruzzese, 1994), un documentario la cui “pericolosità” è depotenziata dal fatto che queste caratteristiche sembrano essere slegate dalle fortune elettorali del Cavaliere, ridotte alle qualità che servono a un uomo per essere il riferimento delle “forze oscure” della società dello spettacolo.