Provaci ancora, Bruno!

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Su la Repubblica del 20 ottobre, Antonio Dipollina inquadra con i toni della regressione degli stili della spettacolarizzazione politica l’ultima performance “modellistica” di Bruno Vespa, la ricostruzione dei movimenti degli attori principali del delitto Scazzi (lo zio, la madre, la cugina, la teste chiave) attraverso un plastico della casa di Avetrana.

  La messa in scena di elementi estranei al “salotto” è una delle caratteristiche più innovative del longevo format Porta a Porta. Risale al 2001 la combinazione vincente tra la “cartina delle grandi opere” e la scrivania di ciliegio destinata ad ospitare la firma del “Contratto con gli italiani”, che rappresentano “due soluzioni tele‐visive, che sono riuscite a rimanere impresse, materializzando agli occhi degli elettori aspetti del programma e della proposta di Berlusconi” (Novelli, 2006, p. 95). Negli anni successivi, l’arena politica offre meno spunti alla costruzione dell’immaginario televisivo degli italiani, e Vespa si sposta su un versante più fecondo: la narrazione del male. Entrano così nella storia della televisione, ma soprattutto nei “discorsi da bar” che in fin dei conti costituiscono la sfera in cui si esprime l’opinione-pubblico nella società della comunicazione (Morcellini, 2010), il plastico della casa di Cogne e altri “setting dell’orrore” che in fin dei conti sono figli del successo del primo esperimento modellistico vespiano.

Questa volta, però, possiamo essere d’accordo con Dipollina: il meccanismo si inceppa. Perché? L’ipotesi del declino di un certo modo di spettacolarizzare i contenuti, politici e cronachistici, nell’approfondimento televisivo, è affascinante ma forse troppo avanzata. C’è una spiegazione più semplice: per continuare a raccontare con successo il “lato oscuro” della società, il padrone di casa del salotto di RaiUno dovrebbe tenere a mente i cardini della narrazione noir. Prima di tutto, gli ambienti chiusi, oscuri, claustrofobici, misteriosi. L’isolamento della villetta ben si prestava a immaginare gli orrori che potevano avvenire al suo interno. La ricostruzione delle stanze in cui la madre e il fratellino di Erika hanno trovato una fine fin troppo nota, e più recentemente la transessuale Brenda ha concluso la sua esistenza in modo ancora non del tutto chiarito, permettevano al conduttore di indicare un percorso, un elemento di arredo, una suppellettile che nel loro insieme costruivano una narrazione a suo modo affascinante. Ma quella facciata ornata di palmizi, pur divenuta grottescamente familiare ai telespettatori, è ancora eccessivamente normale, come pure sono troppo normali le automobili dei protagonisti – sagome più che modellini, e forse sarebbero rimaste più impresse nelle menti degli spettatori delle vere Bburago. Il noir vuole l’inquietante, il perturbante in termini freudiani, ossia il familiare che diventa ricco di nuovi raccapriccianti significati[1]. Come la piccola bottiglia poggiata accanto al giaciglio di Brenda.

Provaci ancora, Bruno!  

di Christian Ruggiero



[1] Sull’applicazione degli stili narrativi noir ai prodotti dell’industria culturale italiana e internazionale, compresa la contaminazione operata nei confronti dei linguaggi dell’informazione, si rimanda a S. Leonzi, Lo spettacolo dell’immaginario. I miti, le storie, i media, Tunuè, Latina 2009.